venerdì 11 settembre 2009

La panchina e l'albero


Li vedeva mentre correva,
lungo la strada che era solito fare
a tutte le ore possibili, ma quelle che preferiva erano quelle
in cui il sole si appoggiava rosso sopra le montagne verso ovest,
quelle montagne turgide che lo separavano da lei.
Le aveva dedicato una storia,
aveva portato quell'immagine dentro la sua poesia.
Le aveva descritto quell'immagine,
l'albero piccolo ma rigoglioso,
la folta chioma spazzolata dal vento.
Legata a lui da una opaca catena
e dal vistoso lucchetto
una bruna panchina di ferro battuto,
elegante e bella, solo un pò di ruggine
ne intaccava la parte bassa
a dimostrare che aveva vissuto,
che non era fatta di una stupida lega,
ma di ferro massiccio.
Aveva dato un significato a quell'immagine,
all'unione di quelle due entità che ogni volta ritrovava,
e che, come una madeleine, facevano volare il suo pensiero
per centinaia di kilometri,
dove lei viveva la sua vita e aspettava....
D.


Lei aspettava, costante,
incurante delle nuvole e del vento gelido
che a volte sentiva provenire da est,
da quelle centinaia di chilometri,
aspettava seduta un segno, una luce,
e le sembrava davvero di essere su quella panchina,
la sua panchina, e di essere legata a lui
come la panchina all'albero,
con una catena che mai nessun evento,
atmosferico o no, avrebbe potuto spezzare...
e lì rimase ad aspettare,
passarono mesi , anni,
ed un'espressione serena le distese il volto piano piano,
anche quando i colori scivolarono via dal suo viso,
quando il calore lasciò il posto al gelido rigore dell'inverno,
l'inverno della sua vita che alla fine arrivò,
e la trovò lì, fredda
e felice di aver , seppure invano
aspettato.
C.

4 marzo 2008

La Pianta Velenosa


Ho trascurato i fiori del mio giardino per coltivare una pianta velenosa. Come è potuto succedere?
Il seme è arrivato in un giorno di sole, portato dal vento che con forza inspiegabile lo aveva sollevato dal piccolo quadrato di terra arida e sabbiosa dagli alti recinti nel quale stava da anni senza riuscire a germogliare.
L'ho osservato posarsi sulla mia terra fertile, un po' discosto dalle altre piante, e l'ho visto rapidamente mettere radici e svilupparsi rigoglioso. Non era una pianta che conoscevo, la forma del fusto, delle foglie, tutto era nuovo per me. Giorno dopo giorno l'ho curata, togliendo senza rendermene conto attenzione alle altre piante, mie da sempre, che ne soffrivano un poco, ma non vistosamente. L'ho innaffiata, concimata, e la vedevo preparare un bocciolo, uno solo, ma grande e promettente. Ho aspettato curiosa e inaspettatamente dopo poco è sbocciato il fiore, un fiore meraviglioso, il più bello che avessi mai visto: aveva tutti i colori dell'arcobaleno, ma inspiegabilmente armonizzati come tinta su tinta, i suoi petali erano vellutati e morbidi al tatto, il suo profumo era il più soave e inebriante che avessi mai sentito, al punto da dare alla testa...
Ogni mattina andavo a vedere il mio fiore, a contemplarne la bellezza, ad annusarne il profumo che poi rimaneva con me per tutta la giornata, e ogni sera andavo ad innaffiarlo e ad assicurarmi che stesse bene per la notte, ad accarezzarne i petali per andare a dormire portando con me quella sensazione di velluto.
Poi un giorno incominciò a sfiorire, "beh", mi dissi, "è normale, ne farà degli altri ancora più belli del primo". Ma invece di mettere nuove gemme, mi accorsi che la pianta metteva spine, lunghe ed acuminate. "Come le rose", mi dissi, " le spine proteggono la bellezza del fiore". Ma quando non ci fu più fiore, nell'accarezzare le foglie ne ricavai ustioni dolorose, incredula riprovai con lo stelo, cercando comunque un contatto con quella pianta che ormai era parte della mia vita, ma ovunque la toccassi un veleno urticante e insidioso mi faceva ritrarre la mano, con una smorfia di dolore.
Ostinata ho pensato fosse una malattia, un qualcosa da curare, ho provato a somministrare rimedi, a trattarla con più attenzione, ma niente, il veleno partiva dalle radici, ed era impossibile eliminarlo, veniva fuori ormai da ogni poro, da ogni propaggine di quella pianta che avevo tanto amato e che ora mi faceva del male.
E intanto mi rendevo conto che il veleno si stava propagando al mio terreno, il mio bel giardino diventava cupo, rialzando lo sguardo sugli altri miei fiori, che avevo trascurato, mi rendevo conto che erano scoloriti, stanchi, e che soffrivano.
Allora, con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore, con dei guanti robusti e delle cesoie lucenti, in una notte di luna con le stelle che splendevano in cielo sono scesa in giardino e ho tagliato con disperazione, con forza, con rabbia, ho fatto a pezzi quel fusto malato, ho estirpato quelle radici senza speranza, scavando per cercare fino all'ultimo pezzettino, per evitare che anche una piccola parte potesse restare e ricrescere un giorno, magari dandomi un altro ingannevole fiore, per poi rivelare di nuovo il suo acre veleno e le sue spine senza pietà.
Con i guanti ho raccolto i resti, e li ho bruciati; il fumo denso e acre mi ha riempito gli occhi di lacrime amare, prima di disperdersi in cielo verso le stelle.
Al sorgere del sole, accanto al cratere rimasto, ho posato lo sguardo sui miei fiori, i miei vecchi fiori che, incolpevoli, sembravano chiedersi come mai gli fossero venute meno le mie cure, cosa mai potesse essere successo per farli sentire abbandonati, e che tentavano ancora di restare diritti, contro il sole, cercando di scaldarsi un po' per sopravvivere, senza portarmi rancore, ma solo incredulità.
Ho capito il loro sconforto, ed ho pensato a quel vento, quel vento che chissà come e perchè aveva strappato quel seme alla terra a cui apparteneva, quella terra arida che lo conosceva bene, e che forse non lo faceva germogliare sapendo che in fondo non poteva portare che danni, resi insidiosi dall'illusione del fiore.
Coprirò il mio giardino, con una rete sottile ma fitta, per proteggere le mie piante, le sole che vorrò seminare, perchè non possano cadere semi estranei, e perchè con le mie cure torni ad essere il giardino che conoscevo, senza bellissimi fiori esotici da una sola notte, ma con piccole piante modeste che anno dopo anno ricompensano le mie cure con le loro fioriture sincere.
Curerò me stessa, dagli effetti del veleno che ho assorbito, forse troverò un antidoto, forse semplicemente resterà dentro di me, e non avendomi ucciso, mi renderà un poco più forte.

C. - 4 marzo 2008